Author

Topic: l'incredibile Incidente del passo Djatlov (Read 488 times)

sr. member
Activity: 392
Merit: 250
December 30, 2014, 12:33:22 PM
#1
L'incidente del passo di Djatlov (in russo Гибель тургруппы Дятлова Gibel' turgruppy Dyatlova, trad. La morte del gruppo di turisti di Dyatlov) è avvenuto la notte del 2 febbraio 1959, quando nove escursionisti accampati nella parte settentrionale dei monti Urali hanno trovato la morte per cause rimaste sconosciute. Il fatto avvenne sul versante orientale del Cholat Sjachl (Холат Сяхл), che in mansi significa montagna dei morti. Il passo montano scena dei fatti è stato da allora rinominato passo di Djatlov (Перевал Дятлова), dal nome del capo della spedizione, Igor' Djatlov (Игорь Дятлов).

La mancanza di testimonianze oculari ha provocato la nascita di molte congetture in merito alle cause dell'evento. Investigatori sovietici stabilirono che le morti erano state provocate da "una irresistibile forza sconosciuta". Dopo l'incidente la zona fu interdetta per tre anni agli sciatori e a chiunque altro intendesse avventurarcisi.[1] Lo svolgimento dei fatti resta tuttora non chiaro anche per l'assenza di sopravvissuti.[2][3]

Chi fece le indagini all'epoca stabilì che gli escursionisti avevano lacerato la loro tenda dall'interno, correndo via a piedi nudi nella neve alta e con una temperatura esterna proibitiva (probabilmente attorno ai −30 °C). Nonostante i corpi non mostrassero segni esteriori di lotta, due delle vittime avevano il cranio fratturato, due avevano le costole rotte e a una mancava la lingua.[1] Sui loro vestiti fu riscontrato un elevato livello di radioattività[1], altre fonti invece ridimensionano fortemente la contaminazione degli abiti, datandola anteriormente alla spedizione.[4]


Premesse

Alcuni ragazzi avevano formato un gruppo per intraprendere un'escursione con gli sci di fondo attraverso gli Urali settentrionali, nell'oblast' di Sverdlovsk (Свердло́вская о́бласть). Il gruppo, guidato da Igor Djatlov, era composto da otto uomini e due donne; la maggior parte di loro erano studenti e neolaureati dell'Istituto Politecnico degli Urali (Уральский Политехнический Институт, УПИ), ora Università Tecnica di Stato degli Urali. I componenti erano:

    Igor Alekseevič Djatlov (Игорь Алексеевич Дятлов), capospedizione, 13/1/1936
    Zinaida Alekseevna Kolmogorova (Зинаида Алексеевна Колмогорова), 12/1/1937
    Ljudmila Aleksandrovna Dubinina (Людмила Александровна Дубинина), 11/1/1936
    Aleksandr Sergeevič Kolevatov (Александр Сергеевич Колеватов), 16/11/1934
    Rustem Vladimirovič Slobodin (Рустем Владимирович Слободин), 11/1/1936
    Jurij Alekseevič Krivoniščenko (Юрий Алексеевич Кривонищенко), 7/2/1935
    Jurij Nikolaevič Dorošenko (Юрий Николаевич Дорошенко), 12/1/1938
    Nikolaj Vasil'evič (Vladimirovič?) Thibeaux-Brignolles (Николай Васильевич (Владимирович?) Тибо-Бриньоль), 5/6/1935
    Aleksandr Aleksandrovič Zolotarëv (Александр Александрович Золотарёв), 2/2/1921
    Jurij Efimovič Judin (Юрий Ефимович Юдин), 1937

L'obiettivo della spedizione era raggiungere l'Otorten (Отортен), un monte che si trova 10 chilometri più a nord rispetto al punto in cui avvenne l'incidente. Il percorso scelto, in quella stagione, era valutato di III categoria, vale a dire la più difficile. Tutti i membri della spedizione avevano alle spalle esperienza sia di lunghe escursioni sugli sci che di spedizioni di montagna.

Il gruppo arrivò il 25 gennaio in treno a Ivdel', una cittadina che si trova al centro della parte settentrionale della oblast' di Sverdlovsk. Andarono quindi fino a Vižaj (Вижай) - l'ultimo insediamento abitato prima delle zone che intendevano esplorare - a bordo di un camion. Il 27 gennaio si misero in marcia da Vižaj verso l'Otorten. Il giorno seguente uno di loro, Jurij Judin, fu costretto a tornare indietro a causa di un'indisposizione.[1] A questo punto il gruppo si componeva di nove persone.

I diari e le macchine fotografiche ritrovati attorno al loro ultimo campo rendono possibile ricostruire il percorso della spedizione fino al giorno precedente all'incidente. Il 31 gennaio il gruppo arrivò sul bordo di un altopiano e iniziò a prepararsi per la salita. In una valle boscosa depositarono il cibo in eccesso e l'equipaggiamento che sarebbe dovuto servire per il viaggio di ritorno. Il giorno dopo, il 1º febbraio, gli escursionisti cominciarono a percorrere il passo. Sembra che avessero progettato di valicare il passo e accamparsi per la notte successiva dall'altro lato, ma a causa del peggioramento delle condizioni climatiche, che scaturì nell'inizio di una tempesta di neve, la visibilità calò di molto e persero l'orientamento, deviando verso ovest, verso la cima del Cholat Sjachl. Quando capirono l'errore commesso, decisero di fermarsi e accamparsi dove si trovavano, sul pendio della montagna, probabilmente in attesa del miglioramento delle condizioni climatiche.
Le ricerche

Era stato precedentemente concordato che, non appena fossero rientrati a Vižaj, Djatlov avrebbe telegrafato alla loro associazione sportiva. Si pensava che questo sarebbe dovuto accadere non più tardi del 12 febbraio, ma anche quando tale data era trascorsa senza che fosse giunto alcun messaggio, nessuno reagì in quanto un ritardo di qualche giorno in simili spedizioni era una cosa piuttosto normale. Solo quando i parenti degli escursionisti chiesero che fossero organizzati dei soccorsi, il capo dell'istituto mandò un primo gruppo di soccorso composto da studenti e insegnanti volontari: era il 20 febbraio.[1] In seguito vennero coinvolti anche la polizia e l'esercito, ai quali fu ordinato di partecipare alle ricerche utilizzando aeroplani e elicotteri.

Il 26 febbraio fu ritrovata la tenda abbandonata sul Cholat Sjachl. La tenda era molto danneggiata e da questa si poteva seguire una serie di impronte che si dirigevano verso i boschi vicini (sul lato opposto del passo, circa 1,5 km a nord-est) ma dopo 500 metri scomparivano nella neve. Sul limitare della foresta, sotto un grande cedro, la squadra di ricerca trovò i resti di un fuoco, insieme ai primi due corpi, quelli di Jurii Krivoniščenko e Jurij Dorošenko, entrambi scalzi e vestiti solo della biancheria intima. Tra il cedro e il campo furono ritrovati altri tre corpi — Djatlov, Zina Kolmogorova e Rustem Slobodin — morti in una posizione che sembrava suggerire che stessero tentando di ritornare alla tenda.[1] I corpi erano lontani l'uno dall'altro, rispettivamente alla distanza di 300, 480 e 630 metri dall'albero di cedro.

I quattro escursionisti rimasti furono cercati per più di due mesi. Vennero infine ritrovati il 4 maggio, sepolti sotto quattro metri di neve in una gola scavata da un torrente all'interno del bosco sul cui limitare sorgeva il cedro.
L'indagine
La tenda come venne trovata dai soccorritori il 26 febbraio 1959. La tenda era stata squarciata dall'interno e la maggior parte degli sciatori era corsa via in calzetti o a piedi nudi.

Dopo il ritrovamento dei primi cinque corpi partì immediatamente un'inchiesta legale. Un primo esame medico non trovò lesioni che avrebbero potuto condurre i cinque alla morte e si concluse così che fossero deceduti per ipotermia. Il corpo di Slobodin[5] aveva una piccola frattura cranica, giudicata però non così grave da poter essere letale.

L'autopsia dei quattro corpi trovati in maggio complicò il quadro della situazione: il corpo di Thibeaux-Brignolle aveva una grave frattura cranica e sia la Dubinina che Zolotarev avevano la cassa toracica gravemente fratturata. Secondo il dottor Boris Vozrozhdenny la forza richiesta per provocare fratture simili era estremamente elevata, la paragonò alla forza sviluppata da un incidente stradale. Da notare che i corpi non mostravano ferite esterne, come se fossero stati schiacciati da una elevatissima pressione e la donna era inoltre priva della lingua[1]. In realtà sia i traumi che la "sparizione" della lingua possono essere facilmente spiegati: la gola dove vennero trovati era sufficientemente profonda per provocare danni di quell'entità in caso di caduta e l'intervallo di tempo trascorso tra la morte ed il ritrovamento dei corpi favorì la decomposizione di questi ultimi[4] come ben visibile dalle foto scattate dai soccorritori.[5]

Inizialmente si suppose che gli indigeni Mansi potevano aver attaccato e ucciso gli escursionisti per aver invaso il loro territorio, ma le indagini mostravano che la natura delle morti e la scena ritrovata non supportavano tale tesi; le impronte degli escursionisti, soli, erano ben visibili e i corpi non mostravano alcun segno di colluttazione corpo a corpo.[1]

Anche se la temperatura era molto rigida (tra i -25° e i -30°) con una tempesta di neve che infuriava, i corpi erano solo parzialmente vestiti. Alcuni avevano solo una scarpa, altri non le avevano affatto o indossavano solo i calzini.[1] Una spiegazione a questo potrebbe essere data da un comportamento chiamato undressing paradossale[6] che si manifesta nel 25% dei morti per ipotermia[senza fonte]. In tale fase, che tipicamente si verifica nel passaggio tra uno stato di ipotermia moderato a uno grave mentre il soggetto diventa disorientato confuso e aggressivo, si tende a strapparsi i vestiti di dosso avvertendo una falsa sensazione di calore superficiale e finendo così per accelerare la perdita di calore corporeo. Dal momento che alcuni corpi vennero ritrovati avvolti in pezzi di vestiti stracciati non appartenenti a loro, si ipotizza che essi vennero tolti ai rispettivi appartenenti dopo la morte, in maniera tale da permettere ai sopravvissuti di coprirsi meglio.[7]

Dei giornalisti riportarono le parti accessibili del fascicolo dell'inchiesta che dicevano che:

    Sei membri del gruppo erano morti per ipotermia, mentre gli altri tre per una combinazione di ipotermia e traumi fatali[7].
    Non esistevano tracce della presenza di altre persone nella zona né nelle aree circostanti.
    La tenda era stata lacerata dall'interno.
    Le tracce che partivano dal campo suggerivano che tutti i membri lo avessero lasciato di comune accordo, a piedi.
    Le vittime erano morte tra le sei e le otto ore dopo aver consumato l'ultimo pasto.
    A confutazione della teoria di un attacco da parte dei Mansi, il Dottor Boris Vozrozhdenny affermò che i traumi fatali dei tre corpi non potevano essere stati provocati da un altro essere umano, "perché la potenza dei colpi era stata troppo forte e al contempo non aveva danneggiato alcun tessuto molle".[1]
    Analisi forensi avevano mostrato che i vestiti di alcune delle vittime presentavano alti livelli di contaminazione radioattiva.[1]

Il verdetto finale fu che i membri del gruppo erano tutti morti a causa di una irresistibile forza sconosciuta. L'inchiesta fu ufficialmente chiusa nel maggio 1959 per assenza di colpevoli. Secondo alcune fonti i fascicoli furono mandati in un archivio segreto e le fotocopie del caso, con alcune parti comunque mancanti, furono rese disponibili solo negli anni novanta[1], ma altre smentiscono totalmente questi fatti, affermando che il caso non venne mai classificato e che le parti mancanti consistevano in una busta all'interno della quale c'era solo della comune corrispondenza.[4]
Polemiche sull'inchiesta

Alcuni ricercatori sostengono che alcuni fatti furono trascurati, forse volutamente ignorati, dalle autorità:[2][3]

    Il dodicenne Yury Kuntsevich, che in seguito diventò il capo della Fondazione Djatlov di Ekaterinburg, partecipò al funerale di cinque degli escursionisti e ricordò che la loro pelle aveva "un'abbronzatura color bruno intenso".[1]
    I vestiti degli escursionisti avevano un alto livello di radioattività; tuttavia la fonte della contaminazione non fu trovata.
    Un altro gruppo di escursionisti, che si trovava circa 50 km a sud del luogo dell'incidente, riferì che quella notte avevano visto delle strane sfere arancioni verso nord (cioè in direzione del Cholat Sjachl) nel cielo notturno.[1] "Sfere" simili furono osservate con continuità anche a Ivdel' e nelle zone adiacenti nel periodo tra febbraio e marzo 1959 da vari testimoni indipendenti (tra cui il servizio meteorologico e membri dell'esercito).[1] Venne poi appurato il fatto che le "sfere" fossero lanci di missili balistici R-7.
    Alcuni resoconti suggeriscono che nella zona si trovavano molti rottami di metallo, il che porta a sospettare che l'esercito avesse utilizzato l'area per manovre segrete e potesse essere stato interessato a un insabbiamento della questione.[1]

Avvenimenti successivi

Nel 1967, lo scrittore e giornalista di Sverdlovsk Yuri Yarovoi (Юрий Яровой) pubblicò il romanzo Высшей категории трудности (It. Al più alto livello di complessità)[8] ispirato all'incidente. Yarovoi aveva partecipato sia alle ricerche del gruppo guidato da Djatlov che all'inchiesta, con il ruolo di fotografo ufficiale della campagna di ricerca e della fase iniziale delle investigazioni accumulando così una conoscenza profonda degli eventi. Il libro fu scritto in epoca sovietica, durante la quale i dettagli dell'incidente erano mantenuti segreti, e Yarovoi evitò quindi di aggiungere dettagli che andassero oltre le versioni ufficiali e i fatti notori. Nel libro l'incidente veniva romanzato e c'era un finale molto più addolcito rispetto ai fatti reali, in quanto solo il leader del gruppo veniva trovato morto. Alla morte di Yarovoi, avvenuta nel 1980, tutto il suo archivio, contenente foto, diari e manoscritti, è andato perduto.

Alcuni dettagli della tragedia sono stati resi pubblici nel 1990 in alcuni articoli e discussioni apparsi sulla stampa locale di Sverdlosk. Uno degli autori fu il giornalista Anatoly Guschin (Анатолий Гущин). Gushin scrisse che ufficiali di polizia gli avevano accordato permessi speciali per studiare il fascicolo originale dell'inchiesta e usare tale materiale nelle sue pubblicazioni. Riassunse i suoi studi nel libro Цена гостайны - девять жизней (It. Il prezzo dei segreti di stato è di nove vite).[3] Altri ricercatori criticarono il testo per il fatto che si concentrava sulla rischiosa teoria della "sperimentazione di arma segreta sovietica".

Nel 2000 una rete televisiva regionale girò il documentario Тайна Перевала Дятлова (It. Il mistero del passo Djatlov). Con l'aiuto della troupe del documentario, una scrittrice di Ekaterinburg Anna Matveyeva (Анна Матвеева), pubblicò un romanzo/saggio con lo stesso titolo.[2] Nonostante il suo carattere di testo di narrativa, il libro della Matveyeva resta la maggior fonte di materiale documentale disponibile al pubblico riguardo all'incidente.

A Ekaterinburg è stata creata la Fondazione Djatlov, con l'aiuto dell'Università tecnica statale degli Urali guidata da Yuri Kuntsevitch (Юрий Кунцевич). Lo scopo della fondazione è convincere le autorità russe a riaprire il caso e di sostenere il Museo Djatlov per perpetuare il ricordo degli escursionisti scomparsi.

Nel 2014 l'americano Donnie Eichar presentò una nuova teoria che spiegherebbe l'incidente, secondo la quale quel giorno il passo sarebbe stato flagellato da una 'tempesta perfetta'. Da questa, grazie alla forma a cupola della Montagna dei Morti si sarebbero sviluppati dei violentissimi mini tornado proprio nei pressi dell'accampamento. Oltre all'assordante rumore, secondo Eichar la tempesta avrebbe generato anche una gran quantità di infrasuoni che, pur se non udibili dall'orecchio umano, hanno un effetto devastante sul corpo umano: avrebbero causato perdita di sonno, mancanza di respiro e un grandissimo panico. L'insieme di questi effetti avrebbe causato la follia e la morte dei ragazzi[9].

http://it.wikipedia.org/wiki/Incidente_del_passo_Djatlov
Jump to: