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Topic: PROGETTO ORIGINALE - George Alec Effinger (Read 130 times)

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July 01, 2018, 06:49:55 AM
#1
Science Fiction Project - Free Culture
Urania - Racconti d'appendice
* * Back * *
PROGETTO ORIGINALE - George Alec Effinger
Titolo originale: Relatives
La radio diceva che per la prima volta dopo due anni la qualità dell'aria era stata giudicata soddisfacente. Ernest Weinraub non riusciva a trovare alcuna differenza: guardando dall'unica finestra del suo appartamento, il cielo di Brooklyn era sempre giallo, quel colore malaticcio che gli dava invariabilmente la tentazione di tornarsene a letto. Ma, come tutte le mattine, si spronò pensando al lavoro e al denaro. Chiuse l'imposta d'acciaio perché la luce non disturbasse il sonno di Gretchen. Poi andò a radersi nell'angolo-bagno, nascosto dietro una tenda.
Ernest si chiedeva se l'odore dell'aria, fuori, sarebbe stato un po' meglio del solito. Riusciva ancora a ricordare il profumo delle estati della sua infanzia. Signore, probabilmente per la strada c'erano migliaia di ragazzini che non avevano mai annusato il fresco sentore della primavera, e che adesso, forse, se ne stavano a giocare sui marciapiedi, cercando di spiegarsi perché l'aria fosse tanto strana. Non molti alberi avevano le foglie, ormai, a parte qualcuno in Prospect Park. Questi pensieri non rattristavano Ernest, ma lo facevano sentire "vecchio".
Con l'imposta chiusa era buio, nel modulo di abitazione. Ernest si vestì in fretta. Si. sentiva sempre solo, la mattina, con sua moglie che dormiva all'altra estremità della stanza. Era portato a pensare a cose tristi, sgradevoli, e spesso doveva scuotere la testa per scacciare quelle malinconie. Alla TV aveva sentito alcuni sociologi parlare delle cause del fenomeno: troppa gente agglomerata in troppo poco spazio. L'uomo aveva bisogno di essere padrone di un po' di spazio in cui muoversi. I moduli abitativi, la cui superficie era determinata a norma di legge, andavano sempre più somigliando alle scatolette di latta in cui si conservava il pesce... Ernest sospirò. Doveva andare al lavoro. Attraversò la stanza senza nemmeno guardare Gretchen. Non voleva più pensare a lei.
- Esci? - chiese lei, sbadigliando.
Lui si fermò sulla soglia, senza voltarsi. - Sì. A più tardi.
- Cosa vuoi per cena?
Ernest aprì la porta, pronto a svignarsela. Guardò la moglie. - Come faccio a saperlo? - disse. - Signore, sono solo le otto e mezzo! Come faccio a sapere cosa voglio per cena? Fai tu. Vado.
- Va bene, caro. Ti amo. - Ernest rispose con un cenno e si chiuse la porta alle spalle. Era già a metà scala quando si ricordò che non aveva neanche dato un'occhiata al bambino. Il lavoro che faceva lo annoiava da matti. Lavorava in una fabbrica di apparecchi elettronici di controllo. Insieme a una decina di donne, sedeva a un lungo banco su uno sgabello alto dallo schienale scomodo, e aveva accanto una cassetta di utensili. Ernest era un aiuto montatore di quarta categoria, il che significava che non gli erano affidati lavori di saldatura. Nella sua cassetta c'erano utensili in numero minore e meno perfezionati che in quella delle donne, le quali, per la maggior parte, erano montatrici di seconda e terza categoria. Forse il suo senso di inferiorità era frutto della sua immaginazione, ma in realtà non lo sapeva, né aveva modo di rivolgersi a una persona qualificata, per saperlo. Si era però accorto che molto raramente le donne lo facevano partecipare alla loro conversazione.
C'erano dei giorni in cui Ernest lavorava solo ai pannelli frontali. Prendeva i sottili fogli metallici, estraendoli delicatamente dal loro involucro di plastica, perché se scalfiva il leggero strato di vernice verde, il pannello era rovinato. Su questi pannelli c'erano vari buchi delle più diverse misure, taluni con l'indicazione del diametro scritta intorno alla circonferenza. In alcuni dei buchi Ernest introduceva una manopola di comando, in altri una guarnizione di gomma o un fusibile, e in quello più grande un interruttore a leva che era difficile sistemare senza scalfire la vernice. Sokol, il caporeparto perennemente agitato, era sempre in moto per controllare quanto materiale sprecava ogni operaio. Munito di un taccuino di plastica blu, più volte al giorno si fermava alle spalle di ciascuno, scarabocchiando il suo giudizio su quanto stava facendo. Con il suo respiro sul collo, Ernest sistemava le chiavi a tubo a sinistra, i cacciavite a destra; poi inseriva l'interruttore, lo teneva fermo con la chiave apposita e lo fissava al pannello con un dado esagonale. Via via che passavano le ore, Ernest eseguiva sempre più meccanicamente il suo lavoro, completando un pannello dopo l'altro. Alla fine dalla mattinata aveva le mani tagliuzzate e le unghie smozzicate. Divideva la sua giornata in periodi: dall'inizio del lavoro alla pausa per il caffè, da questa al pranzo, dal pranzo alla pausa pomeridiana e alla fine dell'orario di lavoro. Erano le sue sole mete, e se lavorava in fretta lo faceva solo per diminuire la noia tremenda. La direzione sapeva benissimo che questa noia avrebbe finito con il nuocere alla produttività, ma tutto quello che riuscì a escogitare per alleviare la monotonia fu un impianto di filodiffusione che trasmetteva musica di continuo.
Ernest trovava che il rimedio era ancora peggiore del male. Sedeva chino sul lavoro, proteggendo il suo minuscolo regno dagli sguardi innocenti delle donne e da quello onnisciente del caporeparto. Definiva gli altri dalle loro funzioni, e non da un attributo umano, fosse pure un nome stampato sul cartellino della timbratura. C'era la grossa negra che portava via i pannelli rifiniti da lui. C'era la donna anziana seduta al suo fianco che saldava complicati blocchi di componenti elettronici, maneggiando quelle delicate ragnatele con automatica perizia. E c'era Sokol, il caporeparto. Quello era "un capo". Si muoveva con maggior libertà, e Ernest lo invidiava. Ma non lo considerava una persona vera: semplicemente era l'uomo che lo sorvegliava.
Era come se ognuno di loro fosse un cristallo con decine di sfaccettature. Lì, in fabbrica, Ernest vedeva solo una sfaccettatura di ogni individuo, tutti i giorni la stessa. E non voleva nemmeno che quegli estranei vedessero di lui più di una sua sfaccettatura. Nell'area metropolitana di New York vivevano trenta milioni di persone, e lui sentiva la presenza individuale di ciascuna. Non c'era alcuna possibilità di evitarlo. L'unica intimità possibile era "interiore". Per difenderla, bisognava non lasciar trapelare i propri sentimenti, né dare segno di amicizia o di solitudine. E la solitudine era terribile.
Ernest rafforzava la propria alienazione facendosi il dovere di ignorare le sfaccettature multiple degli altri milioni di individui. Ognuno doveva cercare da solo il modo di salvarsi: chiudendosi in se stesso, Ernest evitava di essere coinvolto e sommerso dai perpetui drammi altrui, e riusciva a restare se stesso. Per questo si teneva lontano dalle casalinghe cariche di borse della spesa che trascorrevano la loro meschina esistenza su e giù dalla metropolitana, dai ragazzi con una parte del cranio rasata da cui spuntavano tre cavetti, e da tutti gli altri che potevano facilmente turbarlo. Si concentrava sulle amicizie che si proponeva di coltivare, e se queste invece lo ignoravano deliberatamente, si limitava a immergersi più profondamente in se stesso. Non potevano nascere altro che guai, se uno presentava all'altro la sfaccettatura sbagliata.
Era già quasi l'ora di pranzo, quel giorno, quando si mise a pensare a sua moglie. Il lavoro era sempre più noioso, e col passare delle ore provocava in lui un'irritazione crescente. I suoi pensieri divagarono dal pratico all'astratto, e quando diventarono troppo paurosi, pensò a Gretchen.
Lei non aveva più sfaccettature cui Ernest potesse adattarsi: era il cemento che riempiva i vuoti dei suoi rapporti con gli altri. Era un surrogato fiacco, con nessuna, o quasi, attrattiva, ma di lei ci si poteva fidare. Da qui passò a pensare alla superficialità dei suoi rapporti coniugali, agli ancor più superficiali rapporti di amicizia che aveva con le altre persone, a come tale voluta indifferenza verso gli altri garantisse a ognuno la libertà di fare quello che voleva, a come, in fin dei conti, la misantropia fosse la più sicura salvaguardia della libertà individuale, a come tale atteggiamento sfociasse nell'apatia generale, e infine, proprio mentre suonava la campana dell'intervallo per il pranzo, si rese conto che l'apatia era il motivo che aveva indotto tutti ad accettare supinamente il mondo in cui vivevano.
La pausa di dieci minuti per il caffè serviva solo a calmarlo un poco: era l'intervallo per il pranzo che gli offriva l'unica possibilità di rilassarsi in tutta la lunga giornata. Ma anche allora la direzione avrebbe imposto le proprie regole alla sua vita privata: esigeva infatti che l'intervallo durasse un'ora esatta, e perciò, lavorando dalle nove alle quattro, per poter completare le trentacinque ore regolamentari di lavoro settimanale lui era costretto a lavorare anche il sabato. Tutti i giorni a mezzogiorno, i dipendenti si mettevano in fila per timbrare il cartellino, poi sciamavano in mensa, una vasta sala gelida. Ai tavoli prendevano posto a gruppi, sempre gli stessi, e nessuno si dimostrava mai propenso a invitare Ernest ad aggregarsi. Il più delle volte, quindi, lui mangiava solo, ma negli ultimi tempi aveva cominciato a scambiare qualche parola con una segretaria della direzione. Ernest sperava che quelle conversazioni occasionali portassero a qualcosa di più intimo.
- Salve, Eileen - disse sedendo al posto che lei gli aveva tenuto. - Come va?
- Ciao, Ernest. Malissimo. Non ne posso più del signor Di Liberto. Sai, qualunque cosa faccio, non gli va mai bene niente. Sono tre anni che faccio la segretaria, lo sai anche tu, e posso dire di conoscere il mio mestiere. Non sono così stupida come crede lui!
- Non ci fare caso. È solo un lavoro. Limitati a fare quello che ti dicono, e prendi lo stipendio.
Eileen bevve un sorso di latte. - Fai presto a dirlo, tu. - Continuarono a parlare finché dagli altoparlanti non giunse il suono di carillon che preludeva a una comunicazione generale.
- Attenzione, per favore -. La voce amplificata proveniva da diversi punti della sala. - Trasmettiamo un messaggio particolarmente importante del presidente della Jennings Manufacturing Corporation, il signor Robert L. Jennings.
- Grazie, Bob. Amici lavoratori, come vi ha appena detto mio figlio, devo comunicarvi una notizia speciale di particolare importanza. Per questo motivo vi sarei grato se tutti interrompessero quello che stanno facendo, che stiano mangiando o lavorando, e mi ascoltassero con molta attenzione.
"Ci è stato riferito che si è venuta a creare una grave situazione, di cui purtroppo non sono stati rivelati i particolari. Il governo ha quindi ordinato di sospendere ogni normale attività lavorativa, e di conseguenza potete andare tutti a casa, per essere in famiglia quando nel pomeriggio il governo emanerà un comunicato ufficiale. Dopo le tredici di oggi potranno circolare soltanto le forze di polizia e i mezzi di trasporto indispensabili. Pertanto, in ottemperanza all'ordine del governo, siete liberi di tornare alle vostre case. Il lavoro riprenderà appena le circostanze lo permetteranno. Vi prego di non stare a telefonare alla direzione per saperne di più, perché, come ho già detto, siamo all'oscuro dell'accaduto quanto voi. Ma qualunque sia questa situazione di emergenza, auguro a ognuno di voi buona fortuna, e che Dio vi benedica."
Nella sala mensa scoppiò il caos. Ernest si alzò e fece un pacchetto della sua colazione. - A me va bene così - disse.
- Cosa credi che sia successo? - chiese Eileen.
- Non lo so e non me ne importa. - Eileen lo guardò sorpresa, e lui le sorrise. - Lo sapremo presto, no? Voglio dire che potrebbe essere qualunque cosa. Magari è morto un Delegato, o una cosa così. Non mi preoccupa. Sono solo contento di andare a casa. Mi puoi dare un passaggio fino alla metropolitana? Vorrei arrivarci prima della piena.
I treni erano già superaffollati. Evidentemente tutti, in città, avevano ricevuto la stessa comunicazione e si affrettavano a tornare a casa. Le facce erano preoccupate. Ernest si chiese se non era il solo a non provare quel paralizzante senso di apprensione. A ogni modo, qualunque cosa fosse successa, lui era sicuro che gli effetti non sarebbero arrivati tanto in basso, lungo la scala della fortuna, da portare qualche cambiamento nella sua vita. Né nella vita di tutti gli altri, anche se lì c'erano proprio tutti.
La ressa incredibile nella metropolitana guastava un po' la vacanza di Ernest, tanto che, non senza cattiveria, lui si augurò che l'avvenimento imprevisto fosse grave come tutti temevano, per ripagarli del loro comportamento sgarbato ed egoista. Era talmente facile che la gente perdesse il senso della prospettiva! Una volta a casa invece, avrebbero probabilmente saputo dalla TV che la nuora del Delegato dell'Asia aveva avuto un altro aborto. Su tutto il pianeta sarebbe allora stata proclamata una Giornata di Preghiera. O quello, o un altro avvenimento del genere, che non meritava tanta preoccupazione.
Comunque stessero le cose, lui doveva trovare il sistema per ammazzare il tempo, a casa. La prospettiva di passare quelle impreviste ore di vacanza con sua moglie non lo attirava per niente. Seria o no che fosse la situazione, Gretchen avrebbe reagito con qualche isterica manifestazione di panico. Si augurò che emanassero presto il comunicato ufficiale. Prima lo divulgavano più presto sarebbe riuscito a calmarla.
La ressa nella metropolitana era talmente sgradevole che Ernest decise di farsi a piedi gli ultimi due chilometri che lo separavano da casa, invece di prendere l'autobus. I passanti avevano la stessa aria preoccupata dei passeggeri del metrò, e il traffico era così caotico che Ernest dovette aprirsi un varco tra la folla per andare avanti.
I palazzi che fiancheggiavano la strada erano tutti condomini-dormitori, ogni centimetro cubo dei quali era sfruttato per contenere i moduli di abitazione di vario tipo e colore. Il governo asseriva che le case di abitazione venivano costruite a un ritmo superiore alle necessità della popolazione, ma Ernest non ci credeva. Tutti conoscevano qualcuno che aveva faticato parecchio per trovare un posto dove sistemare il proprio modulo.
Ernest detestava il suo. Era un modello Kurasu, dono di nozze dei suoi genitori. Era il più piccolo e il meno caro in commercio. Gretchen lo giudicava "confortevole". Ernest aveva affittato lo spazio per sistemarlo al terzo piano di un palazzo privato: non aveva denaro sufficiente per permettersene uno ai piani più alti, lontano dal rumore e dalla sporcizia della città. Ma, per lo meno, erano all'interno di un edificio, con una sola finestra che dava sull'esterno, e sebbene Ernest si lamentasse che gli sembrava di vivere in scatola, erano al sicuro dai razziatori provenienti dalla strada. Il loro modulo, essendo del tipo più economico, era arredato con il minimo indispensabile, ed essendo ormai di vecchio modello, non aveva gli accessori standard dei modelli Ford, Chevrolet, Peugeot che Ernest sognava. Non poteva nemmeno essere collegato con gli impianti ausiliari, tipo lusso, installati per uso comune nell'edificio. Ma, piuttosto che traslocare come avrebbe desiderato Gretchen, Ernest progettava di riuscire prima o poi a vendere il suo modulo e di acquistarne uno di modello più recente e meglio attrezzato.
Appena aprì la porta d'ingresso, sua moglie chiese: - Sei tu? - e poiché lui non rispondeva, uscì dal vano adibito a stanza per il bambino. - Ti aspettavo - continuò. - - Mi ha telefonato la mamma per dirmi dell'annuncio.
Ernest si mise a sedere sul divano massaggiandosi le tempie. - Lo sai che qua dentro fa troppo caldo? A te piace, o cosa? Perché non mi vai a prendere una birra? - E mentre lei si dirigeva verso la zona cucina: - Perché ha dovuto dirtelo tua madre? Non dovevi saperlo anche tu? Stai tutto il giorno davanti al televisore!
Lei gli portò una birra gelata, ed Ernest si appoggiò il barattolo contro la fronte per rinfrescarla. - Il televisore è daccapo rotto - disse Gretchen. - Non so il perché. Il quadro è diventato tutto confuso, e poi non ha più funzionato. Non ho visto niente in tutto il giorno. Forse dovremo comprarne un altro. Il nostro è già vecchio, comunque.
- Pazienza. Lo porterò dall'amministratore. È lui che si occupa di queste cose. Certe volte mi chiedo se sai da che parte arrivano i soldi.
- Ma come faremo a vedere il comunicato? Quello spagnolo ci mette delle settimane a riparare un guasto. E poi non mi fido di lui.
- C'è l'apparecchio bidimensionale del bambino, te ne sei dimenticata?
- Non ce la faccio a guardare in quel vecchio coso. Mi pare stupido vedere tutto piatto come un quadro. E poi mi fa venire il mal di testa, adesso che sono abituata allo schermo tre-D.
- Ma per il comunicato è fin troppo. Vado a prenderlo.

- Signore e signori, preoccupati cittadini del Nord America, buonasera. Le trasmissioni in programma sono state sospese e le ditte promotrici hanno gentilmente concesso il loro tempo per consentirci di mandare in onda questo comunicato speciale a tutta la nazione. Signore e signori, ecco a voi, il Delegato del Nord America.
- Americani, amici - disse il Delegato, - questa mattina ho preso parte a una riunione con tutti i membri del nostro governo, cioè i Delegati del Sud America, dell'Europa, dell'Asia, dell'Africa e del Pacifico, e insieme abbiamo deciso di emanare questo comunicato per informarvi della situazione di emergenza che si è andata creando nelle ultime ore. Siamo sinceramente convinti che, date le circostanze, questo sia il sistema migliore, non solo per voi, miei concittadini del Nord America, ma anche per ogni altro abitante del pianeta, che, mi auguro, in questo momento sta ascoltando la voce del proprio Delegato, ovunque si trovi.
- Quando sono le prossime elezioni? - chiese Ernest. - Fra quindici anni? Ricordami di non votare per questo qui, chiunque sia. È uno a cui piace ascoltarsi parlare.
- Zitto! - disse Gretchen. - Se parla tanto avrà le sue ragioni. Forse vuole evitare che si scateni il panico.
- Sai che panico! - esclamò Ernest, sprezzante.
- E adesso lasciatemi descrivere con calma la situazione - continuò il Delegato. - In questo momento il rischio peggiore è la possibilità che si diffonda fra voi una disgraziata reazione emotiva. Nondimeno devo essere chiaro. Si tratta di questo: il pianeta, e tutti i suoi abitanti, corrono il pericolo di venire distrutti in modo violento e improvviso. - La faccia del Delegato, sullo schermo del vecchio televisore, era impassibile, proprio perché lui si sforzava di apparire sicuro e fiducioso anche mentre riferiva una notizia così allarmante. - Non posso rivelare quale sia la minaccia che ci sovrasta e come si attuerà. I particolari sono noti solo ai vostri sei Delegati, oltre al gruppo di specialisti che hanno redatto la documentazione originale, e abbiamo deciso che, divulgandoli, i cittadini non ne avrebbero ricavato alcun vantaggio. Anzi, sarebbe unicamente servito a intralciare i nostri programmi di evacuazione ordinata e imparziale.
- Moriremo tutti? - chiese Gretchen, con voce che aumentava di tono e volume a ogni sillaba.
- No, non hai sentito? Ha detto "evacuazione". Fidati di lui. È il suo mestiere. Sa quello che fa.
- Anche se ci troviamo vicinissimi a una catastrofe di un'entità mai prima riscontrata sulla Terra, non è il caso di lasciarsi trascinare a un isterismo incontrollato. I nostri tecnici sono al lavoro fin da quando sono apparsi i primi indizi della catastrofe, mesi fa. Siamo quindi lieti di potervi comunicare che sono già stati costruiti molti rifugi sotterranei in grado di reggere a qualsiasi colpo che la catastrofe incombente possa sferrare. Quando il periodo di emergenza avrà termine, uscendo dai rifugi, ci troveremo probabilmente in un mondo sconvolto e distrutto, ma noi, noi saremo incolumi e potremo ricominciare a vivere, adattandoci alla nuova situazione.
"Tuttavia, non abbiamo avuto il tempo di allestire un numero di rifugi sufficiente per tutti. Secondo le stime più ottimistiche, potrà trovarvi posto solo una persona su duecentocinquanta. Di conseguenza abbiamo studiato un sistema sicuro affinché i fortunati che sopravviveranno siano scelti con totale imparzialità."
- Moriremo! - singhiozzò Gretchen.
- L'ingresso ai rifugi sarà consentito solo a coloro che presenteranno uno di questi gettoni. - Il Delegato mostrò una rilucente moneta d'ottone grande quanto un quarto di dollaro. - Ogni persona deve avere il suo gettone. Chi ne sarà privo non verrà ammesso nei rifugi. Assicuratevi perciò che ogni membro della vostra famiglia ne abbia uno, il giorno dell'evacuazione. Avvertiamo che ai gruppi familiari non è riservato nessun trattamento speciale. Non avremo alcun rimorso di dividerli, se sarà necessario, in quanto questo è l'unico sistema che abbiamo per indurre tutti a comportarsi onestamente.
"Oltre a ciò, tutti sono tenuti a procurarsi di persona il proprio gettone. A ogni richiedente ne verrà consegnato uno solo. I bambini di età inferiore ai cinque anni lo riceveranno solo se verranno accompagnati ai centri di distribuzione da uno dei genitori. Vecchi e malati saranno accompagnati da un parente. A prima vista questo sistema potrà sembrare crudele, ma, se ci pensate, è l'unico possibile. Ai centri di distribuzione verranno presi i nomi dei richiedenti che dovranno essere muniti di un documento d'identificazione. Gli elenchi saranno poi raffrontati con quelli delle persone che saranno entrate nei rifugi, e chi avrà ottenuto l'ingresso con mezzi fraudolenti verrà immediatamente passato per le armi insieme a tutto il suo gruppo.
"A partire da domani in tutto il mondo verranno aperti i centri di distribuzione. Il loro numero assicurerà un'equa distribuzione di gettoni, ma le località in cui verranno aperti saranno mantenute segrete per fare sì che un ulteriore intervento del caso contribuisca alla democratica suddivisione dei gettoni.
"E ora io e i miei colleghi auguriamo a voi tutti buona fortuna, e che Dio vi benedica."

Lo schermo si oscurò per un paio di secondi, poi comparvero le immagini di due commentatori che cercarono di interpretare e spiegare il comunicato. Ernest ascoltò il loro sproloquio, finché, annoiato, spense il televisore.
- Cos'hai intenzione di fare? - chiese Gretchen. - Se non scopriamo cosa dobbiamo fare, moriremo.
Ernest inghiottì qualche sorso di birra. - Quelli ne sanno quanto noi. Non voglio sentirne più parlare.
- Cosa ti piglia? Vuoi morire? Dico, non hai scelta, sai? Il mondo sta per andare a catafascio, e l'unico modo di salvarsi è cercare di procurarci uno di quei cosi...
- Domani mattina ci alziamo presto, prendiamo il bambino e andiamo a cercare uno di quei posti dove li distribuiscono. Ci sarà un mucchio di gente, naturalmente, perché si verrà a sapere subito dove si trovano. Ma adesso non possiamo fare niente, quindi stai zitta. - Ernest era in preda a un vago malessere. Di solito, per reagire alla tensione, lui si rifugiava nell'apatia, ma questa volta sapeva di non poterlo fare. Doveva affrontare il problema, ma ancora non sapeva se si sarebbe deciso.
- Ernie - disse Gretchen, - io non posso venire. Lo sai che non posso. Sono incinta.
- Già - disse lui, guardandola, - oltre al resto.
- No, davvero, non posso affrontare la ressa, domani. Vacci tu. Spiegaglielo. Digli che non posso uscire di casa. E poi abbiamo un bambino piccolo. Non possono pretendere che esca, in queste condizioni, e per di più col bambino. Non saranno tanto crudeli.
- Ma non hai sentito quello che ha detto? Non posso farmi dare il gettone per te. Ognuno deve andarselo a prendere. A me non lo daranno. Devi venire anche tu, domani.
- Oh, Ernie! - disse Gretchen, tra i singhiozzi. - Ernie, non posso! Non me la sento! Non...
- Calmati - disse Ernest.
- Prendi queste e vai a dormire.
- Gli chiederai tre gettoni?
- No. Verrai con me.
- No, Ernie, no!
- A te piacerebbe andartene a dormire, e domattina, svegliandoti, trovare che tutto è sistemato, non è vero? E invece non è possibile. Devi uscire e procurarti il tuo maledetto gettone. Perché io mi procurerò il mio, e se tu ti rifiuti di venire, be', mi spiace, ma non ci posso far niente.
- Proverai almeno a chiedergliene tre?
- D'accordo, proverò. Ma due, perché porterò con me il bambino.
- No, Ernie, non puoi portare Stevie in mezzo a tutta quella gente. Lascialo a casa con me, per favore. Non puoi portarmi via il mio bambino.
- Vai a dormire. Adesso esco. Ne riparliamo domattina.

- Avanti, vestiti.
- Io non vengo, Ernest.
- Se non vieni, morirai.
- No. Spiegagli come stanno le cose. Diglielo a quelli della distribuzione che sono incinta. Ti daranno un gettone anche per me. Devono farlo.
- Va bene. Ciao.
Ecco come stanno le cose, pensò Ernest. I loro rapporti, il matrimonio, il bambino, tutto. Gretchen si era chiusa a chiave con Stevie nello scomparto del bambino, e niente di quello che lui aveva detto aveva scalfito il suo muro di paura. Be', lui avrebbe tentato di procurarsi il "suo" gettone. Non gli restava altro da fare.
Quanto alla sua paura, si era un po' attutita nel caos delle altre emozioni. Sapeva che non sarebbe morto: in un modo o nell'altro sarebbe riuscito a procurarsi un gettone. Ma sua moglie e suo figlio... Non poteva assimilare tutto in una volta, e così cercò di accantonare almeno per un poco gli altri pensieri, concentrandosi sul problema più pressante: quello di ottenere un gettone.
Stava ancora rimuginando su quale sarebbe stato il sistema migliore, quando uscì in strada. In una città enorme come New York dovevano esserci decine di centri di distribuzione. Ma dove? Seguì la corrente del traffico pedonale. Trova un posto dove c'è un assembramento di persone particolarmente eccitate e nervose, e mettiti in fila. La trasversale dove abitava, solitamente non molto affollata, adesso era gremita di gente rumorosa. Servizio a domicilio, pensò Ernest. Ci sarà un centro di distribuzione all'angolo.
Gli ci volle quasi mezzora per arrivare all'angolo, distante una sessantina di metri, aprendosi un varco tra la gente a furia di spallate e gomitate, fra le imprecazioni e le urla altrui. Incurante delle proteste, Ernest guadagnò un metro dopo l'altro nella ferma convinzione, comune a tutti, che "nessuno" degli altri era suo fratello. I sentimenti e l'umore della folla erano uguali in ogni individuo.
Ma, arrivato all'angolo, scoprì che non c'era nessun centro. Il viale era gremito come la strada trasversale. Non c'era da sperare nei mezzi pubblici: con quella ressa, anche le auto e le motociclette erano inservibili. Ma dove era diretta tutta quella gente?
Mentre si soffermava un attimo a guardare, si sentì spingere e colpire con violenza al fianco. Solo la densità della folla gli impedì di cadere, e di finire così schiacciato o soffocato. Per reazione, vibrò a caso un pugno che prese una ragazza in piena faccia. Non sapeva se era stata lei a spingerlo. La vide afflosciarsi e la sorresse, finché non si riebbe.
- Grazie - disse lei. - Potevo venire calpestata.
- Mi spiace di avervi colpito. Non so cosa mi sia successo. Sarà che questa situazione mi ha rovinato i nervi.
- Siete stato voi a colpirmi? Oh, non fa niente. - Si toccò il labbro gonfio cercando di sorridere. - Ho l'impressione che non stiamo combinando niente.
- Non direi. Da che parte andiamo, adesso?
- Non saprei. Sono uscita alle cinque di stamattina e non ho ancora trovato un solo posto dove distribuiscono i gettoni.
- Forse lo fanno apposta. Forse si sono nascosti da qualche parte, dove solo le persone più in gamba possono pensare di trovarli. Non vorranno che dai loro rifugi esca un giorno un branco di idioti.
- Può darsi. Quanto tempo abbiamo? - chiese lei.
- Cosa?
- Ho chiesto quanto tempo abbiamo. La distribuzione, quando finirà? Stasera? Quanto manca al cataclisma? Una settimana?
- Non credo che ce lo diranno mai - rispose Ernest, continuando a procedere faticosamente verso il centro della città, tallonato dalla ragazza. Dovevano gridare, per farsi capire.
- Dev'essere così. Avete visto qualcuno col gettone?
- No - rispose Ernest. - Però non credo che chi l'ha avuto lo metta in mostra. Anzi, cercherà di far finta di niente. Quindi non ci resta che andare avanti a caso.
- Di questo passo, prima di sera non avremo fatto più di dieci isolati.

- Sai una cosa? - disse Ernest.
- Cosa? - Darlaine si aprì un varco in mezzo alla gente che premeva alle spalle di Ernest e si fermò insieme a lui sotto un portone.
- Dobbiamo procurarci uno di quei gettoni.
Lei rise. - Sì. "Due gettoni." Ma come?
Ernest si asciugò il labbro sudato col dorso della mano. - Non lo so. Hai qualche idea, tu?
Darlaine sospirò. - No. - Guardò la gente accalcarsi lungo il viale. Se, come speravano, erano in coda a una fila, la sosta annullava il vantaggio di un'ora di cammino.
- Questa folla mi soffoca - disse Ernest.
- Anche a me fa questo effetto - disse la ragazza.
Ernest fece per avviarsi, ma lei lo trattenne per un braccio. - Quanti gettoni ti occorrono? - chiese.
- Come? Ne hai? E non me lo dicevi?
- No - rispose lei. - Chiedevo, così.
Ernest esitò un attimo. - Uno. Solo uno, perché?
- Anche a me ne occorre uno solo.
Ernest si mise a ridere. - Questo semplifica le cose, no?

Tagliarono attraverso il Fort Greene Park dove i prati non erano tanto affollati. Era poco probabile che avessero aperto un centro di distribuzione in quella zona, ma Darlaine aveva pensato che il governo poteva averne installato uno per i doganieri e la guardia costiera che alloggiavano vicino all'East River. Ernest non aveva trovato niente da obiettare.
Mentre uscivano dalla calca nella strada per entrare nel parco, Ernest si sentì nuovamente attanagliare dalla paura.
Gli pareva di osservare il mondo da una distanza spaventosa: le immagini tremolavano e saltavano come in una pellicola mal sovrapposta. La realtà scorreva a sbalzi intorno a lui, incontrollabile, e niente che si dicesse gli attenuava il panico. Tanto per cominciare, non significava niente che il mondo reale non fosse mai stato sotto il suo controllo. Aveva voglia di piangere, ma il nodo alla gola si trasformò in una vertiginosa sensazione d'incubo. Aveva voglia di urlare, di farsi del male, tanto per provare a se stesso che era vivo e reale. E le strade gremite di gente inferocita e urlante non facevano che aumentare la sua paura.
- Sai una cosa? - chiese Darlaine.
- Cosa?
- Neanche qui combiniamo niente, se andiamo avanti così.
- Maledizione! Cosa posso farci, io? Dovunque siano quei maledetti centri, se non sono qui vicino non ci servono un accidente di niente.
- Ti ricordi la panchina dove ci siamo seduti un momento, al parco?
- Sì - rispose Ernest, insospettito.
- Troviamoci lì, stasera.
- Cosa?
- Se ci dividiamo, avremo qualche probabilità in più. Saremo in due a cercare. Così, invece, tu ti stanchi il doppio, perché io non faccio altro che intralciarti. E se uno avrà fortuna lo dirà all'altro.
- Mi pianti per andare con qualcun altro, eh? Quante volte hai già fatto questo giochetto? E quanti sono quelli con cui lavori?
- Tre - rispose Darlaine senza scomporsi.
- E dovrei fidarmi di te? Voglio dire, se uno di quegli altri ti dice dove trovare i gettoni, hai intenzione di dirlo anche agli altri tre?
- Naturalmente. - Darlaine aveva l'aria offesa. - Ormai dovresti conoscermi, no?
- Già. E quando avremo tutti quanti il gettone, con chi andrai?
- Con te.
- Vuoi proprio che ti creda - disse Ernest. - D'accordo. Stasera alle dieci sarò alla panchina.
- Ti amo, Ernest.
- Arrivederci.

Via via che le ore passavano e si avvicinava la notte, la folla diventò isterica. Nessuno sapeva quanto tempo gli restasse. E poi, si trattava di un disastro naturale su scala cosmica, di là da venire, dopo un anno, due anni, cinque anni? Oppure di un disastro provocato dall'uomo? E se fosse successo quella notte stessa, a mezzanotte? Pareva che nessuno, nelle strade, avesse ancora ottenuto il gettone. I fortunati, posto che ce ne fossero, mantenevano il segreto. Presto, tutti impararono a non dare ascolto alle grida improvvise: "Sotto il ponte! Nessuno penserebbe di cercare là!", "I sotterranei dello stadio! Un posto perfetto!" Tutti ascoltavano increduli, ma poiché la situazione era veramente disperata e ognuno aveva i nervi a fior di pelle, le voci correvano...

Impossibile dire dove cominciò la violenza. Gli ondeggiamenti frenetici della folla spinsero qualcuno dei più deboli a lato della strada, schiacciandolo contro la vetrina di un negozio, che andò in pezzi. Il tragico rumore dei vetri infranti sembrò una liberazione, e la folla ne volle ancora: sassi, cestini dei rifiuti, corpi umani vennero lanciati contro le vetrine. I pali dei cartelli segnaletici furono divelti, i cavi dell'energia furono strappati e lasciati a penzolare come servitori di procedimenti ormai inutili puniti per la loro incapacità. Trenta milioni di pazzi scatenati in una sola città, e stretti in mezzo a loro gli agenti in divisa, le forze dell'ordine che di solito lo mantenevano, ora in balia della violenza da cui erano trattenuti solo dalla mancanza di spazio.

Ernest fu travolto dalla confusione mentre riattraversava la città per tornare al parco. Anche sotto l'ombra degli alberi non c'era pace. Evitò i punti da cui provenivano rumori di lotta e si avviò verso la panchina: non si era ancora rassegnato. Senza quasi rendersene conto aveva trovato la forza di continuare a cercare. Rinunciare adesso, cedere al disordine insensato, equivaleva letteralmente al suicidio.
Bene, pensò tenendo d'occhio i gruppi di coloro che si azzuffavano nel parco, se non altro ce ne saranno meno per le strade.
Alle dieci era alla panchina. Da solo. E così alle dieci e mezzo. Alle undici cominciò ad avere paura. Alle undici e un quarto se ne andò. A dar retta alle voci che correvano insistenti, il disastro sarebbe cominciato a mezzanotte. Solo mezz'ora per trovare un gettone, posto che ce ne fossero ancora.
È come se fossi già morto, si disse facendosi strada nella ressa. Sono morto. È tutto finito.
Dopo un po' si fermò a riflettere su questo pensiero. Piangeva, quando gli parve di vedere Darlaine.
Era sicuro che fosse lei: lottava per aprirsi un varco nella calca, qualche metro più avanti. Forse è riuscita a procurarsi il gettone. Forse è rimasta intrappolata tra la folla e non ce l'ha fatta a raggiungermi.
- Ehi! - urlò, sapendo che probabilmente lei non l'avrebbe sentito o non gli avrebbe badato. - Darlaine, aspetta! Sono io, Ernest Weinraub! - La ragazza lo sentì e si voltò. Aveva un'espressione atterrita, e invece di tentare di tornare indietro per raggiungerlo, cercò di spingersi più avanti, di mescolarsi alla gente.
- Maledetta - disse Ernest, - ha un gettone.
Si fece avanti a spintoni e gomitate, e finalmente la raggiunse. L'afferrò e la trascinò sotto un portone.
- Lasciami andare! - strillò lei.
- Perché non sei venuta all'appuntamento? Dove hai preso il gettone?
- Cosa dici? Non ce l'ho. E chi sei tu? - Si era messa a piangere, adesso.
- Fammi guardare nella borsetta - disse Ernest.
Lei lo fissò terrorizzata. - No!
Lui tentò di strappargliela, e lei gli mollò un calcio in un ginocchio. Allora lui la colpì di taglio alla gola, e lei cadde, svenuta. Le strappò la borsa e ci frugò dentro, pieno di speranza. Non c'erano gettoni. Chi aveva assistito alla scena ne capì al volo il significato.
- Ne ha uno! - gridò una voce.
- L'ha lui, adesso!
Ernest fece dietrofront e attraversò di corsa l'atrio del condominio, seguito da decine di scalmanati urlanti. Uscì dalla porta di servizio e riuscì a perdersi in mezzo alla folla.

Ormai Ernest vagava a caso, con la certezza di avere solo pochi minuti di vita, come tutti. E tanti erano già morti, vittime della violenza della folla e del loro destino. Non c'era più speranza. Se anche avesse trovato un centro di distribuzione, adesso, ci sarebbe rimasto qualche gettone? E in pochi minuti, quelli che mancavano alla catastrofe, come avrebbe raggiunto un rifugio?
Da dove sarebbe venuta la morte? Perché non lo dicevano?
Camminando, il suo panico crebbe e ingigantì fino a comprendere il mondo circostante. Non osava guardare il cielo per paura di vedere una cometa fiammeggiante precipitare sibilando su di lui. Non osava guardare nemmeno in basso per paura di vedere la strada fendersi, la crepa allargarsi, e inghiottirlo in un baratro di fuoco.
Da un momento all'altro l'aria poteva diventare irrespirabile o disperdersi nello spazio lasciando la Terra priva di atmosfera e facendolo morire per asfissia. Aveva perso, e avevano perso anche tutti gli altri milioni di suoi simili, anche se niente di quello che chiunque poteva dire l'avrebbe indotto a provare pietà per loro.
Mezzanotte. Tutti lo sapevano: la notizia si era sparsa con rapidità incredibile, molto superiore a quella della più veloce delle voci incontrollate.
Era mezzanotte, e tutti trattenevano il respiro, oppure piangevano o bestemmiavano. Ma l'unico suono venne dagli altoparlanti installati sul tetto delle case.
- Attenzione, attenzione. A tutti i cittadini. Il pericolo non è immediato. Tornate a casa e aspettate un secondo comunicato del vostro Delegato. Ripetiamo, non vi trovate in pericolo immediato. Restando nelle strade rischiate solo di farvi del male. Tornate a casa. Domani a mezzogiorno verrà trasmesso un comunicato speciale del Consiglio dei Delegati...

Il giorno dopo, a mezzogiorno, Ernest accese il televisore bidimensionale. Gretchen gli sedeva accanto, sul divano, ancora intontita dai calmanti che aveva preso il giorno prima. Non era uscita di casa e non aveva idea della gravità dei disordini. Aveva dormito per tutto il giorno e tutta la notte, e quella mattina aveva rimproverato Ernest perché non aveva portato i gettoni.
- Smettila di lamentarti! - disse lui. - Adesso ci diranno qualcosa. A me interessa solo sapere quando succederà. Se ci sarà tempo, troveremo il modo di procurarci i gettoni. Lasciami sentire.
Dallo schermo grigio una voce annunciò: - Signore e signori, le Loro Democratiche Eccellenze, i Delegati dei popoli della Terra.
La scena era un'anonima biblioteca. I sei uomini erano seduti su alti scranni disposti a semicerchio davanti a un caminetto. Qualcuno aveva in mano un bicchiere, qualcun altro fumava. Sembravano rilassati e, ovviamente, sicuri di sé.
La telecamera inquadrò il Delegato del Nord America. Sorrideva in modo accattivante. - Come senza dubbio saprete - attaccò, - un comunicato emesso dai nostri uffici informava che l'intero pianeta correva il pericolo di essere distrutto da una catastrofe non ben precisata, ma completa. Adesso passo la parola a Ed, che desidera esporvi, in breve, qual è la situazione attuale.
- Grazie, Tom. La situazione si è un po' chiarita. Sono sicuro che i nostri ascoltatori saranno lieti di sapere che il mondo non corre più nessun pericolo di venire distrutto da un'immane catastrofe. - S'interruppe per bere un sorso.
- Almeno per quanto ne sappiamo noi - aggiunse un altro, ridacchiando. - Non vogliamo mandare in rovina le compagnie di assicurazione.
- Ben detto, Chuck - disse Ed. - Ma quello che volevo dire è che fin dal principio la notizia della catastrofe non era vera, che era stata inventata di sana pianta.
Ernest era completamente frastornato. Non disse niente, né si sarebbe accorto se Gretchen avesse fatto qualche commento.
- Spero che i nostri elettori non crederanno che l'abbiamo fatto per divertirci - disse Tom.
- Abbiamo avuto le nostre buone ragioni, ma non crediamo sia prudente starvele a raccontare adesso - disse un altro.
- Quali che siano, devono essere parecchio importanti - disse Gretchen.
- Taci - disse Ernest.
- Almeno non moriremo - disse ancora lei.
- Taci!!!
-...eravamo convinti che sarebbe stato un sistema efficace e relativamente indolore per diminuire la popolazione, tanto per dirne una - continuò il Delegato.
- Una specie di selezione naturale forzata - precisò Chuck.
- Giusto - disse Tom. - E questo mi fa ricordare una cosa. Speriamo che tutti siate ancora abbastanza sconvolti da abbandonarvi alla violenza anche stanotte. Era previsto nel progetto originale.

I sei Delegati continuarono così per quasi mezz'ora. Ernest li guardava immerso in un silenzio sbigottito e offeso. Si rifiutava di credere a quello che dicevano: doveva essere la loro idea distorta di uno scherzo. Gretchen, seduta al suo fianco, provava solo un enorme sollievo perché non sarebbe morta. Infine, Ernest si alzò e spense il televisore con una manata.
- Mi sembra ridicolo. Secondo me hanno esagerato, non trovi? - disse Gretchen.
Ernest frugò in un cassetto finché non trovò la sua rivoltella. - Non lo so - disse. - È impossibile farsene un'opinione sensata.
Gretchen vide l'arma. - Cosa vuoi fare? - chiese nervosamente. - Solo perché si aspettano che tu esca a...
Ernest le sparò tre volte. - Tu non puoi criticare il governo - disse. Andò vicino a Stevie, e si chinò a guardare il figlio. Trasse poi dal portafogli un biglietto da venti dollari, lo piegò e l'infilò nel pugnetto del bambino. Poi tornò nella zona soggiorno e andò a chiudere a chiave la porta d'ingresso, mettendo anche la catena.
- Non hai il diritto di dire queste cose - disse, un attimo prima di spararsi. - Solo loro sanno come stanno le cose. Sanno quello che fanno.
FINE
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