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Topic: social e controllo - page 3. (Read 719 times)

legendary
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June 09, 2019, 09:32:09 AM
#1
sempre relativamente al thread in cui sono parecchio incazzato con lo stato (quello di gbianchi)

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SOCIAL MEDIA E LO STATO
USA
Il governo americano vuole i profili social di chi entra col visto
A partire da questo mese quasi tutti coloro che vogliano chiedere un visto per gli Stati Uniti devono indicare sulla domanda i loro profili social degli ultimi 5 anni. Non solo: devono anche scrivere i numeri di telefono e indirizzi email del passato quinquennio. Questi requisiti - che fino ad ora avevano riguardato solo particolari categorie di richiedenti, chi cioè era indicato come qualcuno su cui era necessario fare controlli aggiuntivi - ora verranno estesi a circa 15 milioni di richiedenti di visti all’anno (Quartz).
Questo riguarda anche gli italiani che richiedano un visto (mentre non sono obbligati quelli che vanno per brevi periodi). “Sotto i 90 giorni, i cittadini italiani e di altri 37 Paesi (Francia, Germania, Portogallo, Regno Unito e altri) non sono coinvolti: possono fare la richiesta elettronica Esta, che permette di viaggiare senza avere alcun visto, e per loro la dichiarazione delle informazioni relative a 14 social network” è opzionale, scrive il Corriere. Chi invece “debba compilare un modulo di autorizzazione Ds-160, Ds-260 e Ds-156”, dovrà fornire i dati.

Programmi privi di efficacia: lo studio
Il Dipartimento Usa di sicurezza interna (DHS) impiega da tempo anche i social media per fare controlli su immigrati e americani, ma il loro utilizzo è aumentato a partire dal 2015, riferisce un centro studi indipendente, il Brennan Center for Justice. Che due settimane fa ha pubblicato un report proprio sul monitoraggio dei social media da parte del governo Usa.

Fino ad ora tale monitoraggio - scrive il report - si è concentrato soprattutto sui musulmani. Ma soprattutto, prosegue il rapporto, i programmi pilota del Dipartimento per la sicurezza interna (DHS) “non hanno avuto successo nell’identificare minacce alla sicurezza nazionale”. Un audit di tali programmi tenutosi nel 2017 ha rilevato che non è stata misurata la loro efficacia. Anche le valutazioni fatte da parte del Servizio per la cittadinanza e l’immigrazione (USCIS) mostrano che i programmi finora sono stati inefficaci. Su 1500 casi esaminati, a nessuno dei richiedenti era stato negato l’ingresso solo o soprattutto per informazioni ottenute dai social.
“Un risultato chiave dei programmi pilota era che erano incapaci di abbinare in modo affidabile i profili social agli individui oggetto di controllo, e anche quando veniva individuato l’account corretto, era difficile determinare autenticità, veracità e contesto sociale dei dati in relazioni a questioni di sicurezza nazionale”. D’altra parte lo screening dei social portava via risorse ad altri tipi di controlli.

Problemi di interpretazione
“Tentativi di esprimere giudizi basati sui social media sono inevitabilmente afflitti da problemi di interpretazione”, continua il report. Già nel 2012 a un britannico era stato negato un ingresso negli Usa perché gli agenti hanno male interpretato una sua battuta su Twitter (e ci sono stati casi simili anche di recente). E l’interpretazione diventa ancora più difficile quando la lingua usata non è l’inglese e il contesto culturale sconosciuto (senza contare l’uso di slang e gerghi in inglese che in alcuni casi da tool di analisi erano stati scambiati per lingue straniere). Se il Dipartimento di Stato intende fare lo screening dei social media per 15 milioni di viaggiatori, “le agenzie governative dovranno essere in grado di capire le lingue (più di 7mila) e le norme culturali di 193 Paesi”. Inoltre “la comunicazione non-verbale sui social media apre una serie di altre sfide”. Un cuore o un like sotto un articolo postato da qualcuno su Facebook in cui si dice che l’FBI spinge giovani musulmani a fare dichiarazioni pro-ISIS, è un apprezzamento per l’articolo? per quello che fa l’FBI? Per la denuncia implicita o esplicita di chi lo ha postato? Per la persona (un amico magari) che lo ha pubblicato?
L’automatizzazione del processo di revisione dei post non migliora la faccenda. L’uso di keyword o anche di linguaggio naturale per individuare post non dà risultati abbastanza accurati, prosegue il report. La cosiddetta sentiment analysis lo è anche di meno.

I rischi per la libertà di espressione
Se l’efficacia è molto dubbia, non mancano i rischi di un tale controllo a tappeto. “Il monitoraggio dei social media - come altre forme di sorveglianza - avrà un impatto su quello che le persone dicono online, che porterà all’autocensura di chi fa domanda per i visti, ma anche dei suoi amici e famigliari. L’effetto deleterio della sorveglianza sulla libertà di espressione è stato ben documentato nella ricerca empirica; uno studio recente ha rilevato che la consapevolezza o il timore di sorveglianza governativa su internet hanno avuto un sostanziale effetto dissuasivo rispetto alla libertà di espressione sia sui musulmani americani sia più in generale su utenti internet americani. Anche chi diceva di non avere nulla da nascondere era più portato all’autocensura online quando sapeva che il governo stava guardando”.
Lo studio del Brennan Center


e ancora


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BAHREIN
Se segui l'account sbagliato rischi l'arresto
Non è finita qua sul fronte social media, Stato e diritti. Il ministro dell’Interno del Bahrein ha mandato ai cittadini un messaggio di testo (e poi pubblicato anche un tweet) minacciando l’arresto per chi segua alcuni account su Twitter che sono finiti in una blacklist del governo perché “inciterebbero alla sedizione” (Middle East Monitor). Tutto ciò rientra in una costante repressione di voci dissidenti all’interno del Paese, repressione che utilizza svariati strumenti digitali (tra cui spyware, come denunciato in passato da organizzazioni quali Bahrain Watch e Citizen Lab).
Twitter ha preso posizione dicendo che questa decisione del governo del Bahrein è una minaccia alla libertà di espressione (e suggerendo di usare liste private, non visibili all’esterno, invece di seguire degli account. Anche se, come nota un giornalista, in caso di sequestro di dispositivi questa soluzione potrebbe essere un boomerang). Nota: la minaccia sta avendo effetto; espatriati critici verso il governo hanno detto di aver subito perso followers.

CINA
Intanto WeChat (la mega app cinese che mette assieme più funzioni social e di pagamento) ha estromesso dal suo account un giornalista per aver diffuso “voci malevole”, cioè delle foto su Tienanmen. (BBC)


tutto questo a partire dai social, quei siti a cui REGALIAMO dati con cui loro fanno business
Io sono inscritto ma ne faccio un uso consapevole (altri no, decisamente) e questo ha accentrato potere nelle mani di pochi

i dati sono il vero 'potere' economico oggi
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